COVID19: appunti di una psicoterapeuta #6

Silvia Tedone - Psicologa

Il mio intento in questo articolo è quello di dare un parere da Psicoterapeuta alla situazione attuale italiana circa l’arrivo del Corona virus sul nostro territorio.

Per farlo mi sono avvalsa dell’osservazione attraverso concetti e teorie della psicoanalisi e della psicologia in generale, nonché delle competenze trasversali proprie della mia professione.

 
Ciò che arriva a noi in questi giorni davvero singolari e diversi dal solito, non è solo un agente infettivo invisibile che potrebbe in qualsiasi momento installarsi nel nostro corpo, ma anche – anzi direi “soprattutto”, visto che la maggior parte degli italiani non ha contratto la malattia – una nuova modalità di osservare la realtà che ci circonda, un nuovo modo di approcciarci al prossimo, cautele diverse nell’uscire di casa e decisioni importanti da prendere anche per quanto riguarda il nostro tempo libero.

Ma la novità più preziosa è un’altra: finalmente, dopo tanto silenzio, i nostri corpi hanno ripreso a parlarci.

 

In realtà lo fanno da sempre, ma noi non li abbiamo mai ascoltati così bene come sta di fatto accadendo nell’oggi.
E’ lo Stato, attraverso il Ministero della Salute ad invitarci a farlo.
Le ISTITUZIONI ci chiedono di
pensare bene a quello che faremo oggi”, ci ordinano di fare attenzione a noi stessi e agli altri, come la mamma che dice: “Guarda sempre due volte prima di attraversare la strada”.

Ci ritroviamo quindi ogni  giorno e ogni singola ora ad 
ascoltare il nostro corpo, ne cogliamo i sintomi e i movimenti, ci preoccupiamo del nostro sistema immunitario, prendiamo integratori e lo aiutiamo concretamente a non ammalarci attraverso la cura dei nostri ambienti di vita, che teniamo puliti e ordinati.

E’ una rivoluzione che non si ferma al corpo, ma si inserisce nella dimensione interpersonale attraverso precauzioni che ci tengono lontani gli uni dagli altri, per cui lo scenario diventa quello di tanti corpi autonomi e responsabili verso se stessi e in relazione con gli altri solo con distanze calibrate, significate e pensate.

Chissà se sta accadendo proprio questo anche alle nostre menti.

 

Con il rischio di auto-citarmi, provo a riscrivere il periodo precedente, cambiando soggetto.

“E’ una rivoluzione che non si ferma al corpo, ma si inserisce nella dimensione interpersonale attraverso precauzioni che ci tengono lontani gli uni dagli altri, per cui lo scenario diventa quello di tante menti autonome e responsabili verso se stesse e contemporaneamente in relazione con gli altri solo con distanze calibrate, significate e pensate.”
 

Tutto ciò mi rallegra, e non poco. Perché questo paesaggio sa tanto di indipendenza individuale quanto di riconoscimento dell’altro, sa poco di simbiosi e tanto di rispetto reciproco, sa tanto di civiltà e regole quanto di spazio ritrovato per lasciarsi andare e sentire qualcosa di nuovo.

E’ davvero confortante come la morte sia inserita in tutto questo ordine ritrovato come colei che dà senso a ciò che è vivo, lo rende molto più prezioso perché non più scontato.

La fragilità, proprio come sostenuto non solo dalla psicologia ma anche da molte filosofie e pensieri orientali, è oggi la chiave per mettere le basi su una nuova stabilità, fatta di cose reali, di mattinate a casa perché la scuola è chiusa, di figli che si annoiano, a casa o sul luogo di lavoro dei genitori, godono finalmente di preziose ore di vuoto in cui può nascere il desiderio, di situazioni totalmente incontrollabili dove ciò che improvvisamente conta di più sono i nostri nonni, le persone anziane, quelle che dovrebbero naturalmente godere del maggiore rispetto da parte di tutti, di gruppi resistenti che si riuniscono nel rispetto delle ordinanze con lo spirito di portare avanti i progetti, anche correndo un piccolo rischio in più.

A me sembra che si stiano ristabilendo equilibri antichi, profondi e veri, autentici in cui abbiamo la grande opportunità di aver a che fare con noi stessi con onestà, senza dimenticare come questo comprenda naturalmente anche l’Altro debole, che tutti devono difendere per dovere, anche se non lo hanno mai incontrato veramente e non hanno idea di chi sia.

Il solo sapere che i deboli “ci sono” vuol dire essere capaci di “portare dentro il debole” proteggendolo con le azioni quotidiane: questo è un autentico segnale di una società definibile, finalmente, “civile”.

 

Articolo a cura di Silvia Tedone

 

Photo by Simon Shim on Unsplash

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